Al momento stai visualizzando Perché c’è bisogno di perdersi per tornare a casa

Sulla mia pelle ho vissuto l’impossibile composizione tra la voglia di mondo e la voglia di radicamento, e so bene che di volta in volta uno si può anche illudere di essere tutto da una o dall’altra parte. Sarebbe bello che qualcuno raccontasse come noi abbiamo una strana facoltà che è quella di illuderci dei radicamenti, salvo prova contraria. Siamo invece molteplici anche in questo campo e io ne sono la dimostrazione. Mi convinco che sono “ me” solo nel qui e ora e invece la vita mi ha insegnato che ci sono parti di me sparse per il mondo e che ho recuperato solo ritrovandomi a passare. 

I luoghi riposano fino a quando non ci ricordano di nuovo

Anche se siamo in transito e anche se abbiamo sviluppato un sano distacco da radicamenti e appartenenze, i luoghi ci sono consoni al pari delle persone e per questo quando uno cambia luogo si perde. 

Perdersi è la grazia che il mondo ci fa di ricordarci che, nonostante la nostra tendenza all’astrazione e alla rarefazione, noi siamo da qualche parte e questo qualche parte diventa una parte di noi.

Il disorientamento e il “ fuori luogo” ci costringono a ricostruire i nostri punti di riferimento, a misurarci e a ridefinirci rispetto a un altro contesto. Ci consentono di “ apprendere ad apprendere” (Bateson, 1972), riattivano un’interazione tra noi e l’ambiente che avevamo data per ovvia e che invece riemerge, andando oltre il rischio di azzeramento dell’identità che comporta il perdersi.

Il nostro cervello deve fare “ mente locale”; il nostro pensare, sentire, conoscere variano a seconda di come variano gli stessi luoghi, così come i luoghi vengono ridefiniti da chi vi si riambienta.

La paura di perdersi

In un famoso saggio sul “ Carattere Balinese”, Margaret Mead descrive l’importanza, per un balinese, di sapere sempre dove si trova.

Le parole per i punti cardinali sono le prime che un bambino impara e sono perfino usate per la geografia del corpo.

Un balinese vi dirà che c’è una mosca sul lato occidentale della vostra faccia (…) Orientamento nel tempo, nello spazio e nello status sociale sono le condizioni essenziali di una esistenza sociale e i balinesi, per quanto distillino in occasioni rituali sostanze alcoliche, resistono con rare eccezioni all’alcol, perché chi beve perde l’orientamento (…) Orientamento è sentito come una protezione piuttosto che come una guaina stretta e la sua perdita provoca una estrema ansietà. Se si prende un balinese e lo si porta via in fretta in auto fuori dal villaggio nativo, tanto da fargli perdere l’orientamento, il risultato possono essere parecchie ore di malessere e la tendenza ad addormentarsi. (M.Mead, 1947) 

Il potere del perdersi 

La “ passione di perdersi” del nostro tempo è un desiderio di esperienza “ totale” e non come una distrazione banale e quotidiana. In un mondo in cui l’ambiente naturale è invaso e sostituito da quello costruito, la potenza dei luoghi sconosciuti si sposta sempre più lontano in luoghi quasi irraggiungibili. 

Viaggiare e la mitologia moderna delle agenzie di viaggio e delle guide ai paesi lontani prima, dei social media e dei viaggi avventura ora, possono essere interpretati come un banale e disperato tentativo di fare commercio del perdersi.

La promessa di viaggi in posti esotici, dai suoi inizi aristocratici alla sua massificazione, ha trasformato il perdersi in un bene di mercato sottoposto alle leggi dell’economia dell’illusione, vendibile e a un prezzo sempre più alto.

Tutto ciò ha avuto inizio con la colonizzazione occidentale dei paesi lontani. È il viaggio come immaginazione e scoperta, ed esplorazione di terre “ vergini” e di culture e popoli lontani. Sono i continenti visti con gli occhi degli esploratori, missionari, avventurieri, antropologi, ansiosi di perdere le proprie tracce. Un attimo dopo un brivido di perdizione tutto ciò ha aperto la strada alla civilizzazione occidentale.

Ma questa modalità va verso una estinzione visibile: più nulla di nuovo sotto il sole.

Ogni cosa è stata incanalata in direzioni conosciute da esploratori, missionari, antropologi, ingegneri, architetti, viaggiatori, fotografi e turisti. Questi non perdono mai la strada della loro agenzia, del loro gruppo e della loro organizzazione. 

Ci si può perdere davvero?

Crescere significa liberarsi dalle conseguenze drammatiche del perdersi, dell’essere perduti da bambini tra la folla. Vuol dire imparare ad orientarsi da soli, a non aver bisogno di una guida per uscire dai meandri e dai trabocchetti dell’ambiente circostante. Cavarsela vuol dire dominare la paura di finire nella indifferenza e dispersione che ci circonda e trovare in mezzo ad esse i nostri punti di riferimento.

Il viaggiatore stesso, per quanto carico di stupore possa essere, può solo fare finta di perdersi. Egli non rientra in nessuna delle categorie che glielo permetterebbero. In molte culture il forestiero o è un ospite o è un estraneo da cui guardarsi, un nemico o peggio un turista, un distruttore.

La geografia è più importante della storia perché la contiene (G.C. Infante). 

Noi siamo carne e geografia. Lo spazio è una condizione necessaria alla costruzione della nostra identità e quanto più veniamo allontanati dalla diretta manipolazione di esso tanto più la nostra identità si fa scialba, perde interesse anche per noi stessi.

La bellezza del mondo serve a costruire la varietà degli umani, la sostanzia di colori, odori, memorie, sogni e nuvole.

Qualunque altra maniera di costruire l’identità, se non è tappezzata di paesaggi, dalle terre e le acqua circostanti risulta magari più regolare, più articolata, più ramificata, ma molto meno ambigua, variegata e piena di sorprese.

Così uno può far finta di stare bene a crescere e vivere in un paesaggio virtuale, a farsi bastare i social, di immergersi nelle centinaia di like e milioni di contatti, ma il suo corpo, anche se sarà bello e allenato, perderà la goffaggine e la “ terrestrità’ che ci consente di ricordarci che in fondo siamo fratelli degli alberi e cugini delle lucertole.

Tornare a casa 

Per un nomade il tragitto stesso non è uno spostamento: è la ripetizione di un gesto di fondazione. È srotolare il tappeto delle proprie mappe mentali, simboliche, culturali in corrispondenza ai luoghi del territorio che si attraversano.

In Mongolia, gli uomini renna, temono, all’inizio delle loro emigrazioni stagionali dietro le renne, che un errore di valutazione nella rotta da seguire possa compromettere inevitabilmente la sussistenza del gruppo e sopravvivenza delle renne. Si affidano al responso di uno sciamano e al suo tamburo d’orientamento. Sul tamburo è disegnata una mappa simbolica del territorio. Lo sciamano batte con un piccolo martello sul tamburo, fino ad entrare in trance e a sognare in questa condizione il tragitto più adatto. 

I nomadi delle steppe tornano a casa, ogni volta, spostandosi.

Originariamente “ casa” significava il centro dl mondo, non in senso geografico, ma ontologico.

Mircea Eliade ha dimostrato come casa fosse il posto in cui il mondo poteva venire fondato. Una casa veniva stabilita “ al centro del reale”. Senza di essa si era, non solo senza un tetto, ma anche perduti in un “ non essere”, nell’irrealtà. Senza una casa tutto era frammentato.

Così, casa era il centro del mondo perché nel luogo in cui una linea verticale ne incrociava una orizzontale. La linea verticale era un sentiero ai cieli e al mondo sotterraneo.

L’orizzontale rappresentava il movimento del mondo, tutte le possibili strade che conducevano per la terra ad altri luoghi. Così, a casa si era vicinissimi agli dei e ai defunti, si aveva accesso a entrambi. E, allo stesso tempo, si era al punto di partenza e, ottimisticamente, a quello di ritorno da tutti i viaggi sulla terra. 

L’incrociarsi delle due linee, la sicurezza che la loro interazione promette, era probabilmente già lì, in embrione, nel pensiero e nella mentalità dei popoli nomadi, ma essi portavano la linea verticale sempre con sé, con il palo centrale della tenda. (J.Berger, 1984)

I miei viaggi antropologici mi hanno insegnato lo stupore nei confronti del dettaglio e della ambigua varietà del mondo. Negli anni si scopre sia che la storia di Manhattan è legata a un pugno di noci (leggi qui, altro articolo), sia che a Stilo, in Calabria, non c’è una sola casa che abbia le pareti dritte.

Il mondo si curva, si adatta, ci rinfaccia le nostre aspettative e sta lì a ricordarci che, non solo siamo ignoranti, ma siamo degli ignoranti saccenti. 

Speriamo di ritrovare, quantomeno, la via di casa.

Margherita Monti

Antropologa ambientale, consulente internazionale per UNESCO e IUCN, si batte da anni per la conservazione e protezione della natura. Ha visitato 175 paesi del mondo, appassionata di immersioni, trekking e meditazione.

Lascia un commento