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Il mare ricopre il 71% del nostro pianeta e contiene il 99% di quello spazio dove esiste la vita. 

Per questo motivo, a qualcuno sarà venuto in mente che forse “ quel pallido puntino azzurro”, dovrebbe in realtà chiamarsi “Oceano”.

Leggiamo continuamente che il mare è pericolo, che se andiamo avanti di questo passo l’oceano morirà. Io invece voglio andare controtendenza e darvi una buona notizia: l’oceano è vivo e vegeto e non corre nessun pericolo.

Gli oceani della terra si sono formati 3,8 miliardi di anni fa e continueranno a rivestire il pianeta per molti altri ancora. 

Tuttavia non sappiamo con precisione stabilire quale fosse la salute dell’oceano durante tutto questo lasso di tempo, eppure era lì, semplicemente c’era, c’è e ci sarà in futuro. 

Il mare non muore, ma certamente si trasforma.

Il mare è la madre di ogni forma di vita

Queste sembrano corrispondere a singole cellule, che si sono sviluppate, in mare appunto, e sono comparse circa un miliardo dopo che la Terra si era solidificata in un pianeta.

Prima che venisse creata la prima cellula vivente vi furono probabilmente molti tentativi e insuccessi; ma a un certo punto, l’oscurità delle notti si alternò con giorni pallidamente illuminati, e infine, per la prima volta, il sole brillò direttamente sulla superficie del mare.

Qui alcune creature compirono il miracolo della clorofilla ed ora, erano in grado di prendere l’anidride carbonica dell’aria e dell’acqua del mare, e di costruire con questi elementi – in presenza della luce solare – le sostanze organiche di cui avevano bisogno. Così si crearono le prime piante.

Con il passare dei secoli e dei milioni di anni, il corso della vita divenne sempre più complesso:  dalle creature unicellulari ne derivarono altre, aggregati di cellule specializzate e quindi con organi per l’alimentazione, la digestione, la respirazione e la riproduzione.

Le spugne si svilupparono sul fondo roccioso del mare e i coralli costruirono le loro dimore in acque calde e limpide. Le meduse nuotarono e andarono alla deriva; si evolsero i primi vermi e stelle marine e anche le piante progredirono, passando dalle alghe microscopiche alle alghe ramificate.

Durante tutto questo periodo sui continenti non c’era vita. Le terre dovevano essere inospitali e ostili. Si dovrà aspettare fino al periodo siluriano, circa trecentocinquanta milioni di anni fa, perché il primo pioniere della vita sulla terraferma strisciasse fino alla riva, una sorta di granchio – o di aragosta-, simile ad un moderno scorpione; mentre nel Devoniano troviamo le prime impronte di anfibi.

Sulla terra e sul mare la corrente della vita fluiva incessante; nuove forme si evolsero, mentre altre antiche declinavano e sparivano.

Per un periodo la Terra fu dominata dai rettili, giganteschi e terrificanti; poi arrivarono gli uccelli che si muovevano nell’aria, e poi ancora, i mammiferi.

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L’arrivo dei mammiferi

Quando approdarono gli animali che iniziarono una vita terrestre portarono con sé una parte del mare nei propri corpi, un’eredità che trasmisero ai loro figli e che ancora oggi lega ogni animale terrestre alla sua antica origine marina. Pesci, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi a sangue caldo: ognuno di noi porta nelle vene un flusso salino in cui gli elementi sodio, potassio e calcio sono contenuti secondo rapporti quasi uguali a quelli dell’acqua del mare. 

Questo è il nostro retaggio dal giorno in cui, innumerevoli milioni di anni fa, un remoto antenato, evolutosi dallo stadio unicellulare a quello pluricellulare, per la prima volta sviluppò un sistema circolatorio nel quale il fluido, altro non era se non acqua marina.

E poiché la vita stessa ebbe origine dal mare, così ciascuno di noi comincia la sua vita in un oceano in miniatura, nel grembo materno e, negli stadi del suo sviluppo embrionale, ripete le fasi attraverso le quali la sua razza si è evoluta, dagli abitanti a respirazione branchiale di un mondo acquatico, alle creature in grado di vivere sulla terraferma.

E fu così che l’ultimo milione di anni vide la trasformazione dei mammiferi in esseri con il corpo, il cervello e lo spirito dell’uomo

E finalmente anche egli ritrovò il mare. 

Deve aver trascorso diverso tempo, immobile e attonito sulle sue rive; deve averlo osservato a lungo con stupore e curiosità, chissà se inconsciamente a lui riconoscente della propria discendenza. 

Egli non poté reimmergersi materialmente nell’oceano, come avevano fatto tartarughe, foche e balene, ma nel corso dei secoli, con tutta la sua abilità, il suo ingegno, ha cercato di esplorarlo e investigarlo. Ha costruito imbarcazioni per navigarlo e poi ha scoperto il modo per scendere nelle sue profondità, e ha calato reti per catturare le sue creature. 

Questo perché nel suo subconscio, non lo aveva mai completante dimenticato. 

L’avvento dell’Agricoltura

A questo punto finisce la parte romantica della storia; e questo accade nel momento esatto in cui l’uomo scopre l’agricoltura, diventa stanziale e inizia a plasmare il mondo attorno a sé.

Non a caso la coltivazione agricola è considerata la causa maggiore della trasformazione ambientale: si comincia con il disboscamento delle terre e il loro dissodamento, poi si rimuove la vegetazione, solitamente bruciando ed emettendo così anidride carbonica; i terreni poi non vengono coperti, aumentando così il rischio di erosione e la conseguente perdita di fertilità

I pesticidi e i diserbanti danneggiano le specie all’interno e all’esterno dei campi agricoli, poiché vanno a sommarsi alle sostanze nutritive in eccesso provenienti dai fertilizzanti che già inquinano stagni, laghi, ruscelli, fiumi e aree costiere.

Il bestiame prende il posto degli erbivori autoctoni; in molti casi i terreni vengono ripuliti anche per migliorare la produzione di vegetazione destinata al foraggio, tuttavia l’allevamento intensivo su larga scala produce metano e altri gas serra a causa del letame.

Oltre alle emissioni di gas serra, agli effetti sul suolo e all’inquinamento de acqua, aria e terreni, l’impatto globale dell’agricoltura e dei centri urbani trasforma e rimpiazza gli habitat naturali e le specie autoctone. 

L’industria e la pesca industriale

Poi è arrivata l’industria e la pesca industriale: flotte di navi hanno iniziato a solcare gli oceani dalla metà del ‘900, la crescita demografica e la domanda di pescato provocarono l’aumento delle attività di pesca, in termini sia di portata che di intensità, incluso l’utilizzo di reti enormi sui fondali marini e di esplosioni da dinamite, con conseguente distruzione delle barriere coralline. 

Allo stesso tempo, gli habitat costieri venivano sempre più trasformati dai residui provenienti dall’agricoltura, i quali finivano per essere trasportati in mare, dalla costruzione di aree urbane e altre infrastrutture, e dalla rimozione di ambienti di mangrovie e altri sistemi di zone umide.

Le sostanze tossiche inquinanti prodotte dalle industrie a partire dal piombo sono state diffuse attraverso l’acqua e hanno danneggiato le specie sia in modo diretto sia tramite l’accumulo di tossine lungo la catena alimentare, poiché gli organismi contaminati vengono consumati in grandi quantità dai predatori.

I fertilizzanti in eccesso, sotto forma di azoto e fosforo, possono avere effetti simili, e in alcuni casi ancora più gravi degli inquinanti tossici, sulle specie e sugli habitat acquatici.

Gli esempi più estremi di “eutrofizzazione” – processo che avviene a causa di un aumento delle sostanze nutritive-, si verificano nelle arre costiere degli oceani.

Le “zone morte” si formano dove un eccesso di azoto produce ingenti quantità di alghe che affondano, si decompongono, e durante il processo consumano così tanto ossigeno che le creature marine non riescono a respirare. 

L’arrivo della plastica

E poi, è arrivata plastica, un sostanza organica artificiale, prodotta utilizzando prioritariamente materie fossili, petrolio e gas. La sua indistruttibilità, caratteristica che ne ha favorito l’ampio uso è però anche la causa della sua pericolosità: la maggior parte delle plastiche non si biodegrada e permane nell’ambiente per centinaia di anni.

Stime recenti riportano come oggi siano presenti oltre 150 milioni di tonnellate di plastica negli oceani del mondo. Senza un’efficace inversione di rotta, entro il 2025 gli oceani conterranno 1 tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce ed entro il 2050 ci sarà, in peso, più plastica che pesce.

La lotta all’inquinamento marino, di cui la plastica è tra le principale cause, insieme alle piattaforme petrolifere – dove è accertato che nelle loro vicinanze il mare è contaminato 2 volte su 3-,  rappresenta una delle aree di azione più importanti per il futuro. 

Il problema della plastica negli oceani fa parte delle sei emergenze ambientali più gravi – di pari passo con i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità. 

Il mare non muore. Si trasforma

Il mare non muore e non morirà, di certo si trasformerà. Ma questa volta avverrà in maniera anomala, sta già accadendo ora. 

Lo sfruttamento delle risorse condotte dall’uomo sta via via rimodellando l’ecologia terrestre, alterando i cicli biochimici della Terra, ma anche della litosfera, dell’idrosfera e della biosfera; l’uomo ha messo in atto un aumento progressivo dei cambiamenti che oggi hanno un’entità, una velocità e una scala spaziale che non si erano mai osservati prima in tutta la storia dell’umanità,  ha modificato il sistema Terra in modo del tutto nuovo e senza precedenti.   

Ora il tema è, potrebbe tutto quello che sta accadendo nel mondo stimolare l’uomo ad agire in vista di un futuro migliore? 

Per i redattori di Nature la risposta sarebbe sì. Il riconoscimento ufficiale di quello che “abbiamo combinato”  focalizzerebbe le menti sulle sfide che si presenteranno. Le cose potrebbero migliorare o peggiorare, tutto dipende da quello che decidono di fare le società umane – ora e nel futuro-. 

Il mare costituisce il grande regolatore, il grande stabilizzatore delle temperature del globo nel suo complesso, se si vogliono combattere i cambiamenti climatici, bisogna iniziare da lì.

Un oceano sano è in grado di offrire in maniera sostenibile i suoi frutti alle popolazioni del mondo di oggi e delle generazioni future, ma dobbiamo permetterglielo. 

Noi e l’oceano

Ora sappiamo che la nostra vita sulla Terra dipende soprattutto dallo stato di salute degli oceani.

La cosa certa è che l’uomo non può controllare e mutare l’oceano come, durante la sua breve occupazione della terra, ha domato e saccheggiato i continenti. Nel mondo artificiale delle sue metropoli e delle sue città, egli dimentica la reale natura del suo pianeta e le lunghe prospettive della sua storia, nella quale l’esistenza della sua razza ha occupato solo un insignificante attimo di tempo.

Pensate ad un lungo viaggio per mare, quando – giorno dopo giorno – osserva la linea dell’orizzonte che si allontana, increspato e solcato dalle onde; quando, di notte, si rende conto della rotazione della terra, man mano che le stelle gli passano sulla testa; o quando, smarrito in questo mondo di acqua e di cielo, avverte la solitudine della terra nello spazio.

Allora, come mai sulla terraferma, si convince della verità: che il suo è un mondo di acqua, un pianeta dominato dal manto dell’oceano, in cui i continenti non sono altro che passeggere intrusioni di terra sulla superficie del mare che tutto, ogni cosa, racchiude.   

È curioso che il mare, dal quale la prima volta sorse la vita, debba ora essere minacciato dalle attività di una forma di quella vita.

Ma il mare, pur cambiato in modo sinistro, continuerà a esistere: la minaccia è piuttosto per la vita stessa.

Rachel Carson

Margherita Monti

Antropologa ambientale, consulente internazionale per UNESCO e IUCN, si batte da anni per la conservazione e protezione della natura. Ha visitato 175 paesi del mondo, appassionata di immersioni, trekking e meditazione.

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