Che cosa significa scegliere una dieta che rispetti l’ambiente e le risorse e che contrasti i cambiamenti climatici?
Il cibo non è solo mezzo e materia. È lavoro, parola, pensiero, gioco, umanità, responsabilità, libertà, esistenza, salute e giustizia.
Lo afferma il professor Marco Riva in un libro che vi consiglio, Filosofia del cibo ( Castelvecchio Editore).
Dunque, non solo “ l’uomo è ciò che mangia“, per citare il motto di Feuerbach; ma quello che decidiamo di portare sulle nostre tavole ha anche a che fare con una dimensione che travalica quella del singolo individuo per legarsi a temi come giustizia e libertà.
Ciò è tanto più vero in un’epoca in cui il modello agroalimentare industriale sta sottoponendo il pianeta a un forte stress, con un consumo di risorse naturali e di suolo senza precedenti.
Il report Climate Change, rapporto speciale dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, ha affrontato le questioni relative alla sicurezza alimentare e alla gestione sostenibile del territorio, evidenziando come il sistema globale sia responsabile del 25-30% delle emissioni antropiche di gas serra.
Dal 1960 a oggi il consumo di carne è raddoppiato, quelle di calorie pro capite è aumentato di circa un terzo e l’uso di fertilizzanti di nove volte.
Non si può continuare così: diventa necessaria una “filosofia agricola”, per citare il cantautore romano NIccoló Fabi; o comunque una “ filosofia del cibo”, che non significa aderire a qualche genere di etichetta o modo, bensì raggiungere la consapevolezza che ogni nostra piccola scelta lascia la sua impronta, a volte più profonda di quanto pensiamo.
L’eredità dei padri
L’esempio da seguire potrebbe arrivare dai nostri genitori o nonni; i nostri avi erano consapevoli che il suolo è alla base della produzione agricola.
Le rotazioni, la possibilità di coltivare specie che sono in grado di restituire componenti al suolo (e non di assorbirli), le letamazioni sono tutti aspetti che l’agricoltura di piccola scala, quella legata alla conservazione delle risorse, ricorda ancora e tiene al centro dell’attenzione.
Ma l’agricoltura industriale, con un atteggiamento predatorio, li ha dimenticati.
Aumentando i rischi sia sul fronte della risposta ai cambiamenti climatici (la biosfera terrestre assorbe quasi il 30% delle emissioni antropogenetiche di CO2, sia su quello della conservazione della biodiversità.
Perché la biodiversità non riguarda solamente una varietà tradizionale di frutta o una razza animale locale, ma anche la ricchezza microbica presente nel suolo, che ne costituisce il potenziale produttivo e che va preservata attraverso tecniche agricole adeguate.
La biodiversità si salva se la si consuma.
Bisogna comprendere che il consumo diventa strumento di conservazione di quella biodiversità: allora il cerchio si chiude e il consumatore diventa un co-produttore, perché diviene complice dell’azione agricola nella scelta della varietà, della tecnica colturale, di tutti quei modelli agricoli che servono a conservare il territorio e l’ambiente.
Agroecologia
Affinché ciascuno di noi diventi co-produttore, è necessario acquisire e recuperare la consapevolezza del “ valore” del cibo, un concetto che va ben oltre quello del costo.
Quando andiamo in un supermercato e troviamo una bottiglia di passata di pomodoro a 50 centesimi, dobbiamo cominciare a farci una serie di domande su quanto siano costati la bottiglia di vetro, il tappo, l’etichetta, il confezionamento.
Solo ponendoci tali quesiti riusciremo a dare al cibo un valore diverso e a pensare che forse è sufficiente sprecare di meno ciò che acquistiamo e metterlo maggiormente a valore.
Ogni volta che acquistiamo un prodotto che arriva dalla produzione agroalimentare, dobbiamo tenere in considerazione l’impegno dell’agricoltore, il valore sociale di chi lavora in agricoltura (quindi il mancato sfruttamento dei lavoratori), la scelta di materie prime locali e di metodi di trasformazione che non deturpino il prodotto, e tutta una serie di scelte finalizzate alla conservazione dell’ambiente anche nel packaging (per esempio, riduzione della plastica e uso di materie prime riciclabili).
Questa visione d’insieme è la sola in grado di consentire l’affermazione di un nuovo modello agroalimentare sostenibile, laddove il concetto di sostenibilità travalica quello di agricoltura biologica per arrivare a una vera e propria “ agroecologia”.
Mi riferisco al modello di agricoltura dei padri fondatori, naturalmente con le innovazioni che oggi ci vengono offerte, ma che tenga in considerazione le produzioni vegetali e animali, il benessere animale; la conservazione del suolo, dell’acqua, degli spazi per gli insetti utili (per esempio le siepi); e tutti quei fattori che possono contribuire al mantenimento della fertilità del suolo.
Il modello agroecologico è alla base di produzione agricola che vuol definirsi “ sostenibile”, che tiene in conto delle generazioni future, dell’ambiente e della salute di chi lavora. Con un risvolto importante a livello sociale.
Diventare tutti vegetariani, è davvero la soluzione?
Forse non serve.
Certo, sappiamo ormai tutti che adottare un regime alimentare a basse emissioni di carbonio aiuterebbe a ridurre la CO2, equivalente a quella prevista per l’anno 2030, di 1,8-3,4 miliardi di tonnellate.
La “ via di mezzo”
Riprendendo un concetto caro alle filosofie orientali, le nostre scelte dovrebbero essere improntate alla ricerca dell’equilibrio e della giusta misura.
Questo vale anche per il consumo di carne.
Le cifre parlano chiaro: la produzione di carne è responsabile di quasi un quinto delle emissioni globali di gas serra; l’area occupata dai pascoli corrisponde al 26% della superficie terrestre del pianeta non coperta dai ghiacci; l’intera zona dedicata alla produzione di foraggio è pari a un terzo del terreno coltivato complessivo.
La soluzione non sta nell’eliminare del tutto dalla nostra dieta le proteine animali, ma nel consumare in maniera responsabile, sapere che tipo di carne mangiare e da dove arriva. Scegliere carne proveniente da allevamenti che si affidano prevalentemente a razze autoctone e tengono conto del benessere animale.
Il buon senso dovrebbe essere sempre alla base della scelta del cibo che mangiamo, così come la conoscenza dei problemi che stanno a monte di ogni produzione agroalimentare .
Qualunque opzione estrema crea squilibrio e non fa che spostare il problema da una parte all’altra.
Un ulteriore esempio riguarda il consumo di cibi “ esotici”, aumentato vertiginosamente negli ultimi tempi.
Prendiamo l’avocado: oggi il suo consumo è preoccupante, perché la produzione, dal punto di vista ambientale dei trasporti e di tutto ciò che vi ruota intorno in Centro/Sud America, sta mettendo a repentaglio non solo la biodiversità e gli ecosistemi in generale, ma anche la sostenibilità sociale.
Eppure, si producono avocadi anche in Italia, esattamente in Sicilia, e sono pure buoni!
Quindi, da parte del consumatore, fare scelte consapevoli significa potersi concedere di mangiare cibi per noi distanti, che non sempre incontrano la tradizione della nostra cucina, senza per questo contribuire al cambiamento climatico e allo sfruttamento sociale nelle aree di produzione.
La svolta necessaria
Anche la ristorazione gioca un ruolo importante, proponendo prodotti di prossimità, o che provengano da circuiti di produzione equa e solidale, cioè che abbia tenuto in considerazione anche il rispetto sociale dei produttori in aree lontane.
Un sistema alimentare moderno non può non tenere conto della necessità di confrontarsi con le risorse naturali e con l’impoverimento del pianeta.
Il cambiamento è indispensabile e necessita applicazione nella politica agricola comune, in modo da spostare l’attenzione verso i sistemi di piccola produzione, in grado di consentire la conservazione delle risorse naturali e delle specie, anche la nostra.
Se continuiamo ad agire in maniera irresponsabile attraverso modelli di produzione industriale, certamente chi ci sopravviverà avrà di che lamentarsi.